sabato 9 marzo 2013

Davanti alla legge: un atto di responsabilità


Foto di Hect

Citazione da sapere per essere colti: dopo anni di attesa davanti alla porta della legge l’uomo di campagna poco prima di morire fa un’ultima domanda al guardiano: 
«Tutti si sforzano di arrivare alla legge,» dice l'uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?» Il guardiano si accorge che l'uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l'ingresso. E adesso vado e la chiudo»

Siamo come travolti da alte onde di un mare in tempesta e non vediamo altro che il bianco di quella spuma che ci riempie la bocca nel momento in cui ci rendiamo conto che quando  la nostra passività si erge a pilastro della nostra vita ne siamo automaticamente tagliati fuori: il protagonista non siamo più noi, ma la nostra paura e la formalità. L’uomo di campagna decide di aspettare un permesso per tutta la vita, si fa schiavo di un desiderio che da solo pensa di non poter realizzare. In questo modo – ci lascia implicitamente intendere Kafka – muore nella disperazione e nella delusione di sé.

Ma quanto tutto questo è colpa dell’uomo? O meglio: quanto dipende dall’ingenuità? Quanto dalla (in)consapevolezza?

Innanzitutto è evidente che a noi uomini risulta facile perdere il dominio sulla propria realtà affidandosi alle scorciatoie, che nella maggior parte dei casi si rinsaldano nel luogo comune: “Anche se non faccio niente prima o poi qualcosa cambierà”. Eppure credere che le cose non dipendano direttamente da noi non è solo un atto di ingenuità – questa sarebbe solo una giustificazione – ma anche e soprattutto una difesa dalla prestazione, una parola che dal sesso al lavoro passando per la vita sentimentale mette sempre alle strette, allontana e disarma. Il rischio legato al senso della prestazione è però duplice: l’eccesso o l’abbandono. Così da un lato c’è l’atto iperbolico, più adatto ad un dio che ad un uomo (dio giustiziere in Elephant di Gus Van Sant). Dall’altro una strada che conduce alla solitudine e all’anonimato (della propria umanità in Quarto potere di Orson Welles). In entrambi i casi un’identità che si nasconde, o nell’estremizzazione o nel silenzio. 

Ma dov’è questa identità? E come scoprire in tempo qual è la sua strada di rivelazione (non vorremo fare la fine dell’uomo di campagna o di Kane!)?

In questo senso è illuminante un verso di Impressioni di settembre dei PFM: “Cosa sono adesso non lo so, sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso”. Questo vuol dire che non importa non sapere qual è la via, non importa credere che ci saranno sempre mille domande, o che non ce ne saranno mai o mai abbastanza, non importa sentirsi a volte spaesati e soli nelle difficoltà della vita, ma quello che importa è cercare. Cercare una nuova opportunità di non rinunciare a se stessi proprio nella bellezza irripetibile di quel giorno che “come sempre sarà”.

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Direttamente da Luzer!

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