lunedì 25 marzo 2013

"Le occasioni perse che continuano a ossessionarci": la metafora dell'albero



Stamattina ho letto su La Repubblica un interessante articolo intitolato Maledette occasioni perdute ecco perché ci ossessionano di Gabriele Romagnoli.

L'incipit dell'articolo è il seguente:

TU VIVI in compagnia dei fantasmi di te stesso. Almeno una volta al giorno ripensi al provino che superasti con il Milan, a tuo padre che, sulla strada di casa, ti disse di rinunciare, si trattava di un'illusione, alla testa che hai chinato. E ti immagini mentre alzavi la Coppa ad Atene, invece.
Romagnoli racconta, sfruttando anche la voce del famoso psicologo inglese Adam Phillips, quello che è il dramma della vita di ognuno: il rapporto che si ha nel proprio intimo con il rimpianto di una vita diversa che non si ha avuto l'occasione di vivere, ma che rimane come incastonata nella propria memoria quotidiana, come un "ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico...", come direbbe Piero, protagonista di Ovosodo.

La vita che avremmo voluto vivere e che non abbiamo avuto la possibilità di realizzare allora rimane lì, come una vita parallela, un'ombra sempre capace di ossessionarci e che tendiamo a proiettare su coloro che sembrano viverla o sui figli, eterne vittime dei desideri non assecondati e dei risultati non raggiunti.

Queste riflessioni hanno risvegliato in me un ricordo che porta con sé un'immagine abbastanza ricorrente in questa fase della mia vita: l'immagine dell'albero in inverno, in cui la carenza di foglie ne mette in risalto le ramificazioni, per cui man mano che si sale partendo dal tronco, uno e solido, i rami si dividono in un numero sempre maggiore di percorsi che si fanno via via più sottili e, all'apparenza, più fragili.

Ho scritto di "un ricordo", perché questa figura non è un frutto generico dei miei pensieri, ma il riemergere di una mattinata di lezioni di diversi anni fa (ancora ero in triennale) e, in particolare, alla spiegazione che il nostro professore ci diede della libertà in Heidegger

Metaforicamente parlando la struttura della libertà secondo il filosofo tedesco, rispecchia quella dell'albero. Ognuno è gettato (il concetto della Geworfenheit) in una realtà che non ha scelto e della quale acquisisce i fondamenti e i caratteri, così come le radici dell'albero succhiano il loro nutrimento dalla terra. Si cresce in questo mondo e se ne apprendono costumi e abitudini, modi di pensare e di vivere, fino a quando, con i mezzi che si hanno (il proprio tronco) ci si trova a dover prendere delle decisioni sulla propria esistenza. Da queste scelte nascono i primi rami, che sono i più spessi e i più forti perché le decisioni prese portano a percorrere una determinata strada esistenziale piuttosto che altre. 

Intraprendere un certo percorso porta con sé però ancora la necessità di fare nuove scelte, che non sono nient'altro che la conseguenza di quelle precedenti e, quindi, si inseriscono come nuovi rami su quelli più forti. Di decisione in decisione, si sviluppano le ramificazioni dell'albero, mentre i rami si assottigliano perché le scelte sono sempre più incanalate e direzionate, sempre più definite dal passaggio precedente, sempre meno libere di intraprendere una nuova direzione, di cambiare completamente strada.

Le occasioni perdute si trovano nelle ramificazioni scartate, nei rami più robusti che sono stati messi da parte in favore di altri. Appartenendo allo stesso albero i rami rimangono lì, accanto a noi e ai nostri percorsi, come un perenne e molteplice monito di quello che non siamo stati ma saremmo potuti essere, nel bene e nel male.

Eliminare l'ossessione per un sogno rimasto nel cassetto, per un sacrificio fatto rinunciando ai propri desideri, per uno stile di vita solo sfiorato o vagheggiato, non è un compito semplice e ognuno è chiamato a convivere con i propri rimpianti. Non resta che cercare di essere il più consapevoli possibile nel prendere le proprie decisioni e cercare nel presente le ineliminabili radici per un nuovo futuro, magari anche un po' diverso da quello che ci eravamo immaginati.


giovedì 21 marzo 2013

Buon compleanno Alda!



Mi ricordo quando sono andata a trovarti nella tua casa museo in via Magolfa e ti ho riscoperta nelle tracce che hai lasciato sui tuoi oggetti.
Mi sono sentita vicina a te ascoltando le tue poesie musicate da Giovanni Nuti e cantate da Milva e mi sono librata con te nel cielo come un Albatros.
Ho letto del tuo amore profondo e del tuo dolore altrettanto profondo interrogandomi sull'origine della tua forza e della tua debolezza.
Mi sono commossa di fronte alla sensibilità e alla purezza delle tue parole, capaci sempre di toccare corde nascoste e spesso fragili.
Mi hai fatto riflettere sul senso della pazzia e della depressione che, vissuti in un tempo in cui ancora esistevano i manicomi, hanno segnato la tua vita che è diventata una testimonianza di un possibile incontro tra arte e follia.
Per tutto questo ti ringrazio Alda Merini, tu che sei nata il primo giorno di primavera e che hai vissuto sempre nel segno dell'amore, sbocciando come un fiore a nuova vita ogni giorno.


sabato 9 marzo 2013

Davanti alla legge: un atto di responsabilità


Foto di Hect

Citazione da sapere per essere colti: dopo anni di attesa davanti alla porta della legge l’uomo di campagna poco prima di morire fa un’ultima domanda al guardiano: 
«Tutti si sforzano di arrivare alla legge,» dice l'uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?» Il guardiano si accorge che l'uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l'ingresso. E adesso vado e la chiudo»

Siamo come travolti da alte onde di un mare in tempesta e non vediamo altro che il bianco di quella spuma che ci riempie la bocca nel momento in cui ci rendiamo conto che quando  la nostra passività si erge a pilastro della nostra vita ne siamo automaticamente tagliati fuori: il protagonista non siamo più noi, ma la nostra paura e la formalità. L’uomo di campagna decide di aspettare un permesso per tutta la vita, si fa schiavo di un desiderio che da solo pensa di non poter realizzare. In questo modo – ci lascia implicitamente intendere Kafka – muore nella disperazione e nella delusione di sé.

Ma quanto tutto questo è colpa dell’uomo? O meglio: quanto dipende dall’ingenuità? Quanto dalla (in)consapevolezza?

Innanzitutto è evidente che a noi uomini risulta facile perdere il dominio sulla propria realtà affidandosi alle scorciatoie, che nella maggior parte dei casi si rinsaldano nel luogo comune: “Anche se non faccio niente prima o poi qualcosa cambierà”. Eppure credere che le cose non dipendano direttamente da noi non è solo un atto di ingenuità – questa sarebbe solo una giustificazione – ma anche e soprattutto una difesa dalla prestazione, una parola che dal sesso al lavoro passando per la vita sentimentale mette sempre alle strette, allontana e disarma. Il rischio legato al senso della prestazione è però duplice: l’eccesso o l’abbandono. Così da un lato c’è l’atto iperbolico, più adatto ad un dio che ad un uomo (dio giustiziere in Elephant di Gus Van Sant). Dall’altro una strada che conduce alla solitudine e all’anonimato (della propria umanità in Quarto potere di Orson Welles). In entrambi i casi un’identità che si nasconde, o nell’estremizzazione o nel silenzio. 

Ma dov’è questa identità? E come scoprire in tempo qual è la sua strada di rivelazione (non vorremo fare la fine dell’uomo di campagna o di Kane!)?

In questo senso è illuminante un verso di Impressioni di settembre dei PFM: “Cosa sono adesso non lo so, sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso”. Questo vuol dire che non importa non sapere qual è la via, non importa credere che ci saranno sempre mille domande, o che non ce ne saranno mai o mai abbastanza, non importa sentirsi a volte spaesati e soli nelle difficoltà della vita, ma quello che importa è cercare. Cercare una nuova opportunità di non rinunciare a se stessi proprio nella bellezza irripetibile di quel giorno che “come sempre sarà”.

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Direttamente da Luzer!

venerdì 8 marzo 2013

Festa della donna: il nostro potere contrattuale


Un anno fa l'8 marzo era per me un giovedì universitario vissuto in quel di Milano.

Mentre mi avviavo a lezione avevo incontrato in metropolitana molti venditori di mimose e mi ero ritrovata a pensare al senso di un evento simile in un periodo storico e politico come quello che stavo vivendo.

In Università avevo incontrato molte ragazze sulla mia strada, ragazze che studiavano e si impegnavano tanto e che avevano sicuramente molti sogni - come me del resto.

Ma vedere tutte quelle ragazze che si affacendavano dietro alle fotocopiatrici, che ripetevano assiduamente fuori dall'aula di un esame e che si affannavano cariche di libri non poteva eliminare dalla mia vista un quadro che portava con sé una chiara consapevolezza: l'affastellarsi di pensieri legati alla differenza in busta paga tra uomini e donne, alla maggiore difficoltà delle donne a raggiungere posizioni apicali e alla crescita della disoccupazione giovanile che trovava i suoi picchi proprio nel genere femminile, mi convincevano sempre di più che dietro la festa della donna, carica di significati di lotta di genere, si celasse un grave misfatto e un incompiuto quantomai ineludibile.

"Le donne sono portate a studiare materie umanistiche e prevalentemente orientate verso il sociale, tendenza che le conduce a fare lavori meno remunerativi": una delle magre spiegazioni che avevo trovato ad alcune delle differenze tra uomini e donne in ambito lavorativo.

In sostanza il fatto è che noi donne possediamo un minore potere contrattuale: capiterà che ci faremo una famiglia e allora dovremo restare a casa per gestirla, accadrà che qualche parente si ammali e che dovremo prendercene cura. Tutta una serie di situazioni che ricadono sulle nostre spalle e da cui sembra impossibile liberarsi, non, perlomeno, in un Paese che dà più importanza alla pressione fiscale e alla riduzione del debito pubblico, piuttosto che alle sue carenze di welfare. Però è chiaro: una donna a casa per gestire la famiglia è un lavoratore in meno, quindi un disoccupato in più o, ancora peggio, un neet in più, come piace definire oggi chi non ha occupazione e nemmeno la cerca così come non è in fase di formazione. 

Eppure questo è vero solo sulla carta. 

La donna che rimane a casa non è né un disoccupato né un neet, ma semplicemente colei che  supplisce a tutte quelle necessità di cura imprescindibili in ogni tempo e in ogni cultura: non si possono non crescere i bambini, non si può lasciare la casa allo scatafascio, non si possono lasciare gli anziani invecchiare da soli. Sempre le donne si sono occupate di questi aspetti della realtà e cambiare questa mentalità appare quasi impossibile e vale oggi ancora quello che si diceva un tempo: è una donna che tiene in mano le redini di una famiglia ed è lei che è capace di tenerla in piedi o di distruggerla.

Ma allora cosa ci rimane? Una triste alternativa tra lavoro e famiglia oppure uno strozzamento inevitabile nel tenere insieme le due cose?

Forse sì, forse no. Siamo ancora in tempo per cambiare, per crescere e per far presente quello che valiamo: il nostro potere contrattuale non è così basso come appare inizialmente.

Oggi godiamoci il nostro giorno, esigiamo le nostre mimose anche se per molte di noi sono un fiore insulso, ricordiamoci quello che siamo e quello che siamo in grado di fare. Lottiamo ogni giorno continuando a essere quello che siamo e a ricordare quello che siamo state, tramite anche la voce di donne grandi che a loro volta hanno combatutto per i propri ideali (come Pippa Bacca), oggi ci celebrano e lasciamoglielo fare: accogliamo questa festa con un sorriso e, dentro di noi, non smettiamo mai di sperare e, soprattutto, di lottare.