venerdì 28 gennaio 2011

Atelier


Adeline sognava un giorno di partecipare ai grandi vernissage della metropoli. Li immaginava svolgersi in sale maestose, pieni zeppi di opere d’arte enormi e geniali, frequentati da persone che bevono solo champagne e vanno in giro anche di giorno con i vestiti da vernissage – anche se poi di preciso non sapeva ben figurarsi quali fossero i vestiti da vernissage. Tutti artistoidi mezzi pazzi ma anche un po’ figli di papà pieni di soldi, soldi che ai figli non avrebbero dato, ma che i figli sembravano comunque voler in qualche modo ostentare. Sognava di mangiare sushi da una scarpa, così come avveniva in una vecchia pubblicità, di stupirsi di fronte alle montagne di caviale sui piatti d’argento, di ridere a battute tuttologhe che non avrebbe capito – o forse sì, alle volte capita anche l’argomento condivisibile – , di conoscere gente e creare nuovi contatti, chissà, magari portarsi a casa anche uno di quei personaggi mezzo pazzi mezzo conformati e approfondire la relazione.
Si immaginava forte e bella, stretta nel suo tubino nero, che va bene sempre, imbellito da accessori sgargianti e ricercati e dai lunghi capelli sciolti a cui ogni tanto avrebbe dato una scossa giusto per approfittare dell’effetto: fascino da spostamento di capelli, in quanto segno di sicurezza in se stessa.
Poi in un angolo avrebbe anche trovato qualcuno con cui parlare, ma sul serio, di filosofia, politica, arte e avrebbe così dimostrato che come persona poi tanto male non era, che si poteva capire che aveva studiato e che poteva essere presa sul serio, che aveva delle idee sue.
Chissà, forse un giorno…
Nel frattempo, pur sempre sognando il palcoscenico del gran mondo, si accontentava di presenziare a piccoli incontri in ateliers sconosciuti, dove, gustando vino rustico e pane e salame e osservando ballerine che sembrano mutilate e palme di terre esotiche, si potevano fare quattro chiacchiere sulla filosofia, la politica, l’arte, stringere nuovi contatti, ridere di battute non divertenti.